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domenica 27 settembre 2015

LE AMICHE DELLA SPOSA

L’incantesimo si è rotto.  Aprirà le danze una storica compagna d’avventure, con la quale ho condiviso infanzia, adolescenza, gioventù e l’approssimarsi della vecchiaia. Gli occhi si fanno lucidi: per l’emozione, per i ricordi che si susseguono e per la consapevolezza che quel giorno avrò la fatica nelle gambe e il solleone in testa. Con il passare delle ore il trucco si scioglierà, l’acconciatura cederà e la magia della bellezza svanirà. Possibile che riesca a vedere sempre il lato negativo delle cose? Lo sanno tutti, sono maestra nelle lamentele.

Non farò nomi nel racconto di questa storia, in osservanza alla privacy. C’è stato un tempo in cui si piangeva per amore, mentre i falò ardevano sulla spiaggia e l’amico accanto vomitava l’anima dopo aver tracannato birra e vodka (per non parlare di colei che in piena notte cercò il bagno a tentoni, parlando con il muro). Ho visto cose che voi umani… è tutto lì, nella scatola di una memoria ferrea, che ogni tanto fa tornare a galla episodi leggendari. Ho persino assistito a un “regolamento di conti”, una crudele “vendetta”: porto ancora negli occhi la bulletta di periferia che si scaglia rabbiosa contro la sua presunta rivale, ovvero la mia amica, che vigliaccamente non ho saputo difendere. Ecco, ho confessato. Ma questa è un’altra storia.

La nostra adolescenza è trascorsa in un luogo incantato, chiamato da tutti “villa”. Simpatie e antipatie concentrate nel perimetro che porta da una fontana a un tabacchino, tra un calzone fritto e un’occhiata alla statua della Madonna. E’ lì che abbiamo avvertito i primi sussulti, è lì che siamo cresciute e cresciuti. Da ragazzini, al calare della sera, si ballava il rock and roll e si rideva a perdifiato in quello spicchio di Sud. Si saliva a bordo degli scooter, rigorosamente senza casco, quando i cellulari neppure esistevano. Il mio primo “telefonino” è stato un Alcatel One Touch (viola). Era il 1999. Da lì cominciammo a tempestarci di squilli, a inviare sporadicamente sms per organizzare le feste di San Martino e Capodanno, con il sottofondo der Piotta che cantava “Supercafone”.

Pufff, catapultati nel 2015. Più social che mai, e tuttavia ancorati alla realtà. E’ tempo di assumere il portamento da wedding planner e di aprire le selezioni. Che selezioni? Cercasi cavalieri per il grande giorno. Aitanti e intelligenti. Per di più avremo un ruolo d’onore… le amiche della sposa: dunque serve l’abito adatto, un tacco vertiginoso e un sorriso smagliante.

Come direbbe qualcuno, hashtag #ansia. Spread love!

mercoledì 24 giugno 2015

TUTTA COLPA DI FREUD?

“Vivo di emozioni”. Cito un mio caro amico che ogni estate snocciola perle di saggezza, creando veri e propri tormentoni. Piuttosto oserei dire che “viviamo di illusioni e delusioni”, date e ricevute. Questo vale per la gente che frequento. Da sempre. Un nucleo variabile di donne e uomini affetti da sbalzi d’umore, tendenzialmente insoddisfatti e psicolabili. Bipolari. Siamo uno nessuno e centomila, moltiplicati per X. E’ una condanna, ma si cerca di sopravvivere su questo angusto spicchio di pianeta, dove il sole sbuca con una certa frequenza dandoci la parvenza di un domani migliore. 

Unica consolazione, perenne e immutabile, resta il mare, al quale ci affidiamo in base alle indicazioni della rosa dei venti, ovvero in base alle movenze dei miei tendaggi casalinghi, che hanno generato una degna erede del colonnello Giuliacci. Ionio o Adriatico? Manda un whatsapp e riceverai il bollettino meteo completo, in tempo reale. Il caldo dà alla testa, ne sono consapevole, ma questo stato d’animo collettivo ha origini più remote e profonde.

Era una notte buia e tempestosa. In cielo guizzavano fulmini e saette, mentre un covo di streghe si riuniva per un sabba straordinario convocato all’ultimo minuto, ai piedi della “Scisa de Campi”.
“Quelle ragazzette e i loro amici meritano una lezione” si levò stridula la voce della più anziana, bramosa di vendetta. “Semi di cicoria, sangue di pipistrello, polvere di meteorite… dono alla banda degli irriverenti peripezie, turbolenze e una buona dose di colite/gastrite”. Il malocchio, oramai, pendeva sulle nostre teste, colpevoli di aver suscitato uno dei peggiori sentimenti: l’invidia. Mesi prima, le figlie di Crudelia non avevano visto di buon occhio il successo amoroso e professionale di un membro del gruppo, oggi residente in Inghilterra insieme alla sua pulzella dagli occhi blu.


Fu l’inizio di una serie di disavventure sentimentali e lavorative: l’incantesimo sconvolse le nostre esistenze, già provate dalle numerose ansie ereditate da bisnonni e affini. Lisa si innamorò di un marinaio americano, che veniva a trovarla ogni estate con la solita fandonia del matrimonio, puntualmente rimandato di anno in anno. Luca, alla soglia dei 40, adescava 20enni su Internet per le sue serate da eterno Peter Pan in discoteca, mentre Andrea puntava sulle over, le cosiddette milf, tra le cui braccia si sentiva amato e protetto. Paola e Chiara alternavano momenti di singletudine a lunghe fasi di stabilità di coppia, turbate all’improvviso da colpi di fulmine devastanti o da crisi interiori mai risolte. 

Intanto il mondo continuava a girare: orde di coetanei si giuravano amore eterno, procreavano una o più volte. Accantoniamo l’imperfetto. Questo accade ancora oggi, e in maniera più insistente: i matrimoni degli altri fioccano; capita ogni tanto di essere chiamati in causa come invitati, di dover sborsare denari che di questo passo non verranno mai “restituiti”. E giù di super alcolici per dimenticare in fretta. Per dimenticare in primis la fatica comportata dalla scelta del vestito da cerimonia (traffico, parcheggio, commesse invadenti, bancomat che langue), per dimenticare i fallimenti degli ultimi 30 anni, e per provare a riderci sopra. Ché in fondo questo è il male minore, e prima o poi l’incantesimo si spezzerà. Forse.

domenica 22 febbraio 2015

L'ORA DI ATTUALITA'

Ho smesso di masticare chewing-gum e messo il lucchetto alla “centrale dello spaccio” che per anni ha foraggiato Vigorsol e Vivident. Un tempo distribuivo confetti al mentolo tra i banchi di scuola senza pretendere alcun compenso. Sembravamo esseri ruminanti con una voragine allo stomaco che innescava gli spasmi tipici della fame chimica.  A un passo dalla dipendenza cronica,  giunse la crociata indetta dalla “Papessa Rossa”, docente di lingua e letteratura italiana, femminista convinta nonché anti-fascista, la donna che ha formato e incoraggiato la mia vena scribacchina.

“Chi mastica durante la lezione paga”, ammonì dalla cattedra sgranando i suoi occhi azzurri, limpidi e perfetti come il cristallo. Era bellissima. Raffinata e carismatica. Quello sguardo severo e al tempo stesso materno ci conquistò sin dal primo giorno. I suoi metodi didattici “rivoluzionari”, fuori dagli schemi, furono una palestra di vita nella quale imparammo a combattere i pregiudizi e la discriminazione, imparammo a sognare e a liberare la mente.
Giacché la scuola non è uno sterile contenitore di nozioni da imparare a memoria, né una pila di libri da sfogliare distrattamente. La scuola è molto di più. E noi lo scoprimmo insieme ad una maestra esemplare. Scoprimmo l’importanza di collegare gli eventi storici al presente, di osservare e analizzare il mondo oltre il recinto delle nostre case. E naturalmente a sputare quella maledetta cicca.

Qualcuno provò a bluffare, nascondendola sotto la lingua o appiccicandola sul palato, ma il chewing-gum detector era infallibile. Ci sgamava sempre.
“Colpito e affondato!”
“Professoressa, ma io…”
“Le regole vanno rispettate” ribatteva senza dare possibilità di replica all’alunno colto in flagranza di reato. “Come ben sapete il codice della scuola punisce i trasgressori con una sanzione cibaria. Sei condannato ad offrire un pacco di biscotti ai tuoi compagni.”

Le sue punizioni erano dolci ed aggreganti. Il momento della distribuzione dei biscotti diventava un intervallo extra, l’occasione per sorridere insieme e riflettere sul vizietto che funestava generazioni di studenti e che la prof provava a debellare a colpi di zucchero e farina.

In quegli anni parcheggiammo la noia fuori dalla porta, sulla quale un buontempone aveva scritto: “Lasciate ogni speranza voi che entrate”. Varcata quella soglia trovammo l’entusiasmo di imparare, di leggere e scrivere. Ogni settimana attendevo trepidante l’ora di attualità, fissata per il venerdì. Prima di recarmi a scuola entravo in edicola, compravo il giornale e lo infilavo nello zaino. Era un modo per familiarizzare con i quotidiani locali e nazionali, per cimentarsi nella stesura di un articolo.

“Cosa spinge un gruppo di ragazzi a lanciare dei sassi da un ponte?” mi chiesi mentre la penna scivolava sul foglio bianco. Era quella stessa noia che noi cercavamo di mettere al bando, avventurandoci nel racconto delle notizie. Provammo anche l’ebbrezza di realizzare un tg: in piedi davanti alla cattedra, ci alternavamo nel resoconto di fatti e curiosità. Ombrello nella mano sinistra e un finto microfono nella destra, interpretai l’inviata sotto la pioggia: dal red carpet della scuola media “Papa Giovanni XXIII” (di Trepuzzi), scimmiottando Anna Praderio, annunciai la struggente storia del “Re Leone”.

giovedì 5 febbraio 2015

L'ALTRA SPONDA DELL'ADRIATICO

L’odore del giaciglio su cui trascorse la notte lo tenne ancorato alla terra natìa con la stessa intensità di un cordone ombelicale. In quei fili di paglia era impregnata l’essenza delle montagne che mai avrebbe potuto dimenticare. Dall’altra sponda dell’Adriatico, molti anni dopo, Josif imparò a distinguere ogni singola cima tra una catena di profili evanescenti.

La notte degli addii fu insonne e infinita, sebbene la stanchezza fermasse il respiro. Josif e la sua famiglia camminarono a lungo prima di trovare rifugio in un vecchio capanno disabitato. Avevano abbandonato la casa di Elbasan  giorni prima per intraprendere il sentiero della salvezza, dopo essere stati ridotti in miseria da un impietoso regime dittatoriale. Nell’ultimo mezzo secolo, lo Stato aveva costretto il Paese delle Aquile in una gabbia di ferro, isolandolo dal resto del mondo.

Josif aveva 13 anni quando nel 1991 iniziò a correre verso la libertà. Al suo fianco c’era l’ombra di Dimitri, l’esile bambino cresciuto nella fattoria accanto, rimasto orfano nel 1989 subito dopo la caduta del muro di Berlino. Le vallate dell’Albania costituivano oramai l’ultima roccaforte del regime comunista, le cui fondamenta erano pronte a franare rovinosamente.

Quella notte Josif recitò le sue preghiere a bocca socchiusa. Un profondo squarcio nel tetto di legno lasciava filtrare il chiarore siderale. Assiepata sotto le stelle, la famiglia Laze si preparò a rivoluzionare la propria esistenza. Il cammino indicato dal cielo era nebuloso e pieno di incognite. Nelle tenebre balenavano come falene sguardi e silenzi, fino a che non sopraggiunse l’alba ad irrorare di riflessi viola e turchese il paesaggio circostante.

Gavril, il capofamiglia, aveva lavorato sodo una vita intera, prendendo esempio dagli adulti della sua tribù, uomini dalle spalle larghe e dalla testa dura come quella di un mulo: ogni notte intorno alle tre, si alzava in punta di piedi per nascondere una moneta in un luogo segreto della casa; contravvenendo alle regole della dittatura, era riuscito a mettere da parte un gruzzolo di denaro che sarebbe servito per raggiungere l’Italia. “Un giorno ti porterò a vedere la città eterna” ripeteva da tempo Gavril alla sua secondogenita, Miriam. Una bimba con occhi profondi, accentuati da sopracciglia scure che al sole brillavano come crine di cavallo.  Le piaceva fantasticare,  e al pari di altre ragazzine della sua età sognava il Bel Paese, ammaliata dalle immagini di un mini televisore in bianco e nero che trasmetteva i programmi della Rai.

“Spegni quell’apparecchio” la redarguiva puntualmente sua madre con un velo di rassegnazione. Anjeza non apprezzava lo stile italiano, a suo parere troppo frivolo e superficiale, assai lontano dai valori con cui era cresciuta: su tutti l’incrollabile fede in Dio. “Sono nata in Albania per volere divino, e nessun uomo potrà privare questo paese della speranza” ripeteva con i pugni serrati. 

Tuttavia era giunto il momento di oltrepassare il confine. “Partiamo” le aveva annunciato il marito nelle settimane che precedettero il grande esodo. “Lasciamo l’Albania per sempre. Ho messo da parte dei risparmi per la traversata via mare”. Anjeza rimase impietrita. Guardò dalla finestra e d’un tratto rivide i volti che avevano popolato la sua infanzia riaffiorare oltre i vetri. Mise quei ricordi in valigia alla rinfusa, trascinandoli con sé verso la baia di Valona.

Il barcone li attendeva sulla banchina del porto, al levar del sole. Era il giorno dell’esodo che avrebbe segnato la storia dell’Adriatico. Come una colonia di formiche, migliaia di persone si trascinavano disorientate, in attesa di imbarcarsi sui pescherecci corrosi dalla salsedine.


Miriam si aggrappò impaurita alla giacca del padre, mentre Josif indicava la rotta con la stessa sapienza di un nostromo e s’affannava a scrutare un orizzonte avaro di indizi, dietro il quale si celava il salvifico approdo: la Terra d’Otranto.

lunedì 12 gennaio 2015

MOMENTI DI GLORIA

“Signore e signori, The Solar System.” Applausi. Clap, clap, clap. Dal pulpito dei comizi adattato a palcoscenico, il gruppo vocale nato tra i banchi di scuola (diretto dal maestro con la passione per le chitarre e l’astronomia) si esibì in un playback memorabile, dal quale presi le distanze a pochi giorni dalla performance ai piedi di Largo Margherita. Il brano, di cui conservo gelosamente il testo, era un inno alla resistenza giovanile, uno sprone alla generazione X, “figlia di Tangentopoli e nipote della Prima Repubblica”.

Titolo della hit: “Don’t let down”, incisa in italiano e in inglese, tra le mura insonorizzate di un vero studio di registrazione, arroccato nel Capo di Leuca. Lasciai agli altri membri del gruppo, ovvero ai miei compagni di classe (mediamente intonati/stonati), l’onere del debutto in piazza. La vergogna impedì il decollo della mia carriera canterina, che finì per naufragare nei karaoke tra amici o, peggio ancora, nel salotto di casa sulle basi del “Canta tu”. 

Il maestro notò casualmente la mia “propensione canora”, durante il classico precetto pasquale che da copione prevedeva l’esecuzione di “Imagine” e “Another brick in the wall”, con una pronuncia corale da brividi. Sia chiaro, se avessi avuto un talento reale, mi sarei iscritta a una scuola di canto. Ero sì più intonata dei miei coetanei, ma mai avrei eguagliato gli acuti di Giorgia. Per fortuna, dirà qualcuno.

In quegli anni sperimentai pure l’ebbrezza di agitare pon pon da majorette, al fianco di alcune inossidabili amiche di infanzia. Divisa verde, per volere della Pro Loco, e tutte in marcia verso l’ignoto, al ritmo di motivetti a stelle e strisce. L’adolescenza è una brutta bestia. Toglie il senno, oltre alla bellezza.

Ci avevo già provato da bambina, a incrociare qualche passo di danza, quando partecipai alla quadriglia dei primissimi anni '90, che colorò le strade del paese in occasione del Carnevale. Divertente, ma… voglio essere sincera: l’attività motoria, dall’arte coreutica allo sport, non ha mai costituito il mio punto di forza. L’unica materia in cui abbia preso un voto inferiore al 7 (oltre alla matematica), è sempre stata l’educazione fisica. Odiavo quell’inutile lezione che mi costringeva ad indossare tuta e scarpe da ginnastica. Schiappa a pallavolo, schiappa nel salto in alto. Una tortura psico-fisica. Con una sola eccezione. La corsa ad ostacoli.

Ehm, a che ora suona la campanella?

domenica 11 gennaio 2015

IO CANTO

L’essenziale è primeggiare. Lasciare il segno, e in fretta. Con questa convinzione ho visto orde di persone sgomitare, parlare a sproposito e dispensare falsi sorrisi, pur di raggiungere obiettivi in campo scolastico, lavorativo, sociale. Qualcuno, machiavellicamente parlando, ci è riuscito. Chapeau.

Io ho sempre preferito dire la mia in un secondo momento, o addirittura rimanere in silenzio, sopraffatta dall’eccesso di loquacità dei miei simili. Circondata da mani alzate, pronte a dare dimostrazione di bravura, di personalità, di ambizione e intraprendenza.

Tutto e subito. Vogliono tutto e subito, gli umani alla ribalta, temerari e con le palle quadrate. “Dovresti osare di più, è questo il tuo problema “ esclamò il Grande Capo con fare arrogante, nel corso di una riunione che lasciava presagire il culmine della crisi aziendale. La tv era ai titoli di coda, in pieno ammutinamento. Una defezione dopo l’altra, che però non avrebbe scalfito l’orgoglio imperiale e imperioso di Sua Maestà, il ‘biscione salentino’, ideatore e fondatore del movimento “Apulia domus mea non est”.

Qualcuno, tuttavia, apprezzava i miei modi pacati e sobri. Il Capo no. Lui che senz’altro ignorava la mia predilezione nei confronti della parola scritta, proprio come quando a scuola storcevo il naso in prossimità delle interrogazioni (vuoi mettere la serenità di una penna e di un foglio bianco rispetto alla faccia inquisitoria del prof? ).

Eppure la tv mi affascinava, e fu quella la sfida personale intrapresa anni prima: placare la timidezza, che per anni mi aveva rappresentata, mettendola a tacere a favore di un pizzico di sfacciataggine, di sano egocentrismo. 
L’ansia, mia compagna di vita, galoppava senza freni, impedendo un’emissione vocale naturale. Percepivo, nelle prime dirette, l’influenza negativa di quella fottutissima paura, che dopo un po’ di tempo ho saputo convertire in adrenalina. Tra 5 minuti in onda. Tachicardia. Sudorazione. “Datemi un calmante, vi supplico!”

“Ce l’hai fatta stupida fifona, ce l’hai fatta” pensai guardandomi allo specchio nei mesi successivi. La scommessa era  vinta. Con me stessa. Era la conquista di un grammo di autostima, di sicurezza, contro quel vuoto che per troppo tempo aveva causato la vertigine dell’anima. Accadeva già da bambina, da adolescente, lontano da casa, durante un viaggio, fuori dal mio letto. Quel senso di inquietudine dettato dalla novità.


Le vertigini vanno e vengono: è importante, però, imparare a conviverci, come in una danza perenne che è sinonimo di lotta e sudore.  L’essenziale non è primeggiare. L’essenziale consiste nel compiere quei piccoli passi che segnano il nostro cammino.

venerdì 19 dicembre 2014

OGNI BENEDETTO NATALE

Venuto alla luce il Salvatore del mondo, lo scambio dei regali assumeva puntualmente le sembianze di un Portobello di bassa lega. Sul divano della casa presa in affitto cresceva l’accozzaglia di cianfrusaglie, molte delle quali reperite last minute dalla cartoleria dietro l’angolo. Ogni Natale la stessa scena. Lo stesso film. Regali fatti “con il cuore” ad ogni singolo componente della comitiva, che per estensione era equiparabile alla più numerosa tribù degli Aztechi mai riportata sui libri di storia. Penne e matite erano in cima al paniere dei doni natalizi, insieme agli immancabili e inutili portachiavi, dispersi da tempo per le strade del mondo, magari stipati nei bidoni dell’immondizia. Sì, accadeva anche questo. Perché la locuzione latina “De gustibus non est disputandum” non può essere ritenuta verità assoluta. Soprattutto se ricevi in dono un qualsiasi oggetto non meglio identificato, foderato con della carta da parati. Il kitsch non deve essere giustificato in alcun modo. E’ spazzatura.

Servirebbe dunque un nuovo pensiero filosofico, da diffondere tra gli abitanti del pianeta: non più il riciclo di strenne di cattivo gusto da rifilare ai propri nemici, bensì il divieto di acquisti orripilanti, al fine di incrementare il risparmio globale, con buona pace dell’economista John Maynard Keynes, che ci ha inculcato il vizio di spendere, trasformandoci in una massa di consumatori dalle mani bucate.

Qualche cambiamento, ringraziando il cielo, c’è già stato: con il passare degli anni, siamo riusciti a ridurre la cerchia degli eletti, portando la lista dei regali ad un numero ragionevole, contribuendo così a ridurre i livelli di panico pre-natalizio che ci affligge da sempre. Scusate, piccola parentesi. Mi sovvengono in questo istante i bellissimi braccialetti ricevuti in dono da un caro amico emigrato nella capitale, degni degli accessori di Barbie. Era il 25 dicembre del 2009 (?).
Tutto ciò avveniva, come di consueto, tra le mura di una gelida catapecchia, che decoravamo senza particolare slancio artistico, per una mera parvenza natalizia. I tappi degli spumanti prendevano il volo insieme ad improvvise imprecazioni da osteria, dettate dall’alcol o dalla rabbia scaturita da una disfatta al tavolo da gioco. La Casa delle feste, in realtà, era una bisca. Memorabili le gesta di colei che barava con destrezza, truffando chiunque le capitasse sotto tiro. Nessuna pietà: l’imperativo era vincere. Che si trattasse del gioco del “Morto”, conosciuto anche come “Asu ca fuce” (l’asso che fugge),  del Mercante in fiera,  dei mazzetti, o di quella diavoleria statunitense delle carte da UNO, l’effetto sortito era sempre lo stesso: un gruppo di ludopatici pronti ad inventare qualsiasi tranello pur di mettere in saccoccia il gruzzolo di monete custodito nel bicchiere di plastica. “Scunzamuuuu!” Una voce si levò in preda all’ira funesta, dopo un +4 rifilato dall’avversario (vedi regole del gioco UNO). Non avrei potuto sopportare l’ennesimo fardello. Mi alzai dalla sedia e con uno scatto felino misi fine a quella tortura mischiando le carte sul tavolo. “Che abbia inizio una nuova partita.” Un vero coup de théâtre.

Ma nessuno ha mai raggiunto i livelli di colui che si ingegnava nel gioco del morto per rubare le vite ai sopravvissuti. La sua condanna era morire prima degli altri. La nostra subire i suoi stratagemmi. In molti ci sono cascati, aprendo bocca e cedendo la vita al diabolico zombie. Sillabava offese provocando l’avversario, offriva birra e cioccolatini, rubava borsette e cellulari estorcendo risposte telefoniche. Litri di lacrime sono stati versati grazie alle sue trovate geniali.


Ed eccoci, a pochi giorni dal Natale, che coincide con un compleanno speciale, ancora una volta di corsa,  alla perenne ricerca del regalo giusto. Il tasso di schizofrenia è alto, il portafogli sempre più vuoto. Tra epurazioni e new entry, siamo sempre quelli che si ritrovano a mezzanotte per lo scambio dei doni e degli auguri,  tra risate e baruffe. A proposito, ragazzi… che si fa a Capodanno?